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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Daniel Mendelsohn, Gli scomparsi

[Neri Pozza, Vicenza 2007]

Solo l’ossessione del politically correct può ignorare che le buone intenzioni e una giusta causa non garantiscono la riuscita di un’opera d’arte. Nel 1963 Enzensberger lo rilevava a proposito di Der Funke Leben (1952): «Remarque […] ha scritto un romanzo sui campi di concentramento. Le sue opinioni sono giuste e ragionevoli, la sua probità individuale è superiore a ogni dubbio. Tuttavia il contenuto oggettivo del libro è quello di un romanzo di terza categoria». I decenni trascorsi non sembrano aver creato anticorpi sufficientemente potenti contro approcci didattici e moralistici alla narrazione dello sterminio degli ebrei d’Europa. Solo notevoli energie intellettuali e creative consentono di evitare di trarne esiti banalizzanti o superficiali, e la buona volontà non basta a compensarne l’assenza.

Un esempio recente di profusione (720 pagine!) di buona volontà è Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn, docente di letteratura greca, discendente di terza generazione di una famiglia di ebrei galiziani emigrati negli Stati Uniti negli anni Venti. Qui il nonno materno aveva trovato tranquillità e prosperità, mentre il fratello maggiore, rimasto in Polonia, fu assassinato durante l’occupazione nazista. Di lui i fratelli non erano riusciti ad appurare neppure il luogo e il modo della morte: perciò Daniel, fin dall’infanzia ossessionato dal proprio albero genealogico, tra il 2001 e il 2006 intraprende una serie di viaggi in Australia, Europa e Israele per cercare di ricostruire il destino del prozio, di sua moglie e delle loro quattro figlie attraverso le testimonianze degli ultimi concittadini ebrei, polacchi e ucraini ancora in vita.

Stranamente, la quarta parte di un libro che dichiaratamente non ambisce a distaccarsi dal regesto di fatti e conversazioni si apre con questa frase di Proust: «La condizione mentale di chi “osserva” è di gran lunga inferiore a quella di chi crea» (p. 617). Eppure il narratore afferma di non voler essere nulla più di un osservatore (e un ascoltatore), al massimo un cronachista: puntella il suo discorso di fotografie di luoghi e persone, a imitazione delle prose di Sebald, e dell’assicurazione che i dialoghi riportati sono la trascrizione fedele di registrazioni e filmati. Non ha però intenzione di limitarsi alla nudità testimoniale propria, per esempio, di Shoah di Lanzmann.

L’io cercatore troneggia al centro del racconto, relegando le testimonianze dei sopravvissuti a lacerti collaterali, tappe di un percorso investigativo più simile a quello di Sherlock Holmes che alla ricerca di uno storico. Mendelsohn è animato da un’ossessione – come lui stesso riconosce – che a volte sfocia in un’impudica cecità nei confronti di tutto ciò che non riguarda i “suoi” «sei» tra i «sei milioni» di «scomparsi» (A Search for Six of Six Million, recita il sottotitolo del libro).

Nonostante le sue dichiarazioni Mendelsohn non si limita a raccontarci gli incontri e gli eventi, ma cerca di trasfigurarli nell’epopea di un moderno Odisseo o Enea, sfoggiando le sue competenze accademiche di classici greci e latini, o di un Abramo in viaggio verso la Terra Promessa, inframmezzando il suo racconto con commenti alla Genesi poco penetranti e troppo debitori a due fonti (il medievale Rashi e il contemporaneo Friedman) incongruamente accostate e decontestualizzate. Forse proprio qui risiede l’interesse maggiore che si può trarre da questa lettura, nello sguardo ingenuo con cui questo studioso americano guarda alle radici e alle tragedie della civiltà europea. Ne è certo sinceramente affascinato, ma è anche incapace di penetrarne la complessità problematica e la profondità.

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